Solo una pianta
Passando lungo quella stradina la vede tutte le volte, tutte le volte che esce di casa e si dirige verso il centro della città, e potrebbe cambiare percorso ma in realtà non vuole, o meglio, vorrebbe ma non può, perché non riesce a volerlo tanto da farlo e quindi si ritrova ogni giorno a passare da quel punto – la notte del fattaccio scelse quel punto per caso, oppure quel punto scelse lui, ma sembrava una cosa così irrilevante, così di poco conto, che al momento non ci pensò proprio a portare il vaso più in là, in un altro punto in cui non fosse così facile passare, un punto da non vedere più e di cui dimenticarsi, come voleva dimenticare quel vaso, e certamente anche quella pianta, e di sicuro anche il fattaccio.
In ogni modo adesso la vede, tenta di guardarla solo brevemente e voltare subito lo sguardo, ma si sa che spesso un’occhiata basta a riempire la mente di sensazioni e immaginazioni e soprattutto ossessioni, e lui ormai quella pianta ce l’ha in testa, quella stramaledetta pianta.
Questa volta si ferma, le dice “ti odio”, a volume basso ma nonostante ciò sufficiente ad attirare l’attenzione della signora che gli passa accanto e lo oltrepassa voltandosi di poco – ma abbastanza – a controllare chi mai sia l’interlocutore di quell’odio da strada. Penseranno che ho l’auricolare, che sono al telefono. Non sono ancora pazzo. Tutti parlano per strada da soli: minuscoli apparecchi invisibili a prima vista. Così anch’io rientro nella normalità.
Qualcuno ha asportato il vaso che lui le aveva lasciato un po’ per darle una chance di sopravvivenza – così pensava adesso -, e un po’ per evitare di fare ulteriore fatica, dopo averla trasportata giù e piazzata in quella striscia di terra comunale sotto il muro di pietra, per recuperare il vaso. Ma qualcuno ha dato alla pianta una chance ulteriore – riflette adesso – rubando il vaso e lasciandola lì, ma interrandola per compassione, dandole una nuova terra, una terra straniera ma protetta dal muro di pietre del terrapieno che sostiene il marciapiede in salita, il marciapiede della strada che, su un livello più alto della stradina su cui si trova lui, fermo a guardare, è percorsa notte e giorno da un costante e intenso traffico. La pianta d’appartamento è stata trapiantata da una mano ignota nella giungla cittadina, ma in una nicchia protetta, e benché la pianta d’appartamento non sia adatta alle temperature esterne di questa città del nord Italia, la nicchia fortunosamente ricevuta in dono le ha permesso di resistere, di adeguarsi, di resistere florida.
Lui si accorge che la pianta è più florida di lui. Doveva essere messa peggio, un oggetto abbandonato, e invece è un essere vivente – benché vivente d’una sua misteriosa, a-storica vita vegetale – che se la cava meglio di lui.
La notte del fattaccio lui pensava di rinascere. Avrebbe cancellato tutto il passato ingombrante e avrebbe avuto a disposizione lo spazio per un futuro più adeguato del passato. L’abbandono del vaso con la pianta era stato l’ultimo atto della sua distruzione. Mentre lei lo supplicava di fermarsi, lui aveva afferrato il vaso con particolare furia, e lo aveva scaraventato nell’ascensore insieme a molti altri oggetti a cui lei teneva particolarmente. Oggetti, ma la pianta era viva. A lui non importava, ma lo sapeva. O meglio, lo sapeva e proprio per questo gli importava solo di sbarazzarsene: sarebbe stata una ferita ancora più profonda per lei. Non la capiva, non capiva quel suo amore per determinati oggetti e soprattutto per la pianta, ma sapeva che era così, la conosceva, cioè la conosceva senza capirla. E nel momento in cui la sua furia, il suo odio per la propria vita e per lei aveva dovuto trovare uno sfogo, togliere ciò che conosceva senza capirlo era stata una soluzione per evitare di togliere anche lei. Quella parte incomprensibile della sua stessa vita lo infastidiva come un ostacolo alla tranquillità. Non voleva essere violento, voleva solo risolvere qualcosa di quello che sentiva non assimilabile con il proprio sistema di vita, con i propri pensieri, con il proprio essere.
Continua a passare per quella stradina, e vede la pianta ogni volta che passa di lì. Non evita di guardarla. Non le dice più “ti odio”. Si stente come instupidito quando la osserva. Perché dedicare tanta attenzione a una pianta? Non capisce. Non capisce se stesso. La cosa più semplice sarebbe liberarsene, definitivamente. Potrebbe sradicarla. Bruciarla. Calpestarla. Farla a pezzi. Ci ha pensato tante volte. Ha fantasticato tante azioni possibili, magari a notte fonda, quando la stradina è perlopiù deserta. Ma una forma di inerzia si impossessa di lui quando passa di lì. Rimane semplicemente a osservare quella forma di vita aliena che si disinteressa a lui e alle minacce generate dalla sua mente. Qualche volta arriva un po’ di sole, qualche volta c’è un’auto parcheggiata davanti. Al lampione vicino hanno lasciata attaccata con la catena una bicicletta che in breve tempo è diventata un rottame al quale sono state sottratte tutte le parti utili. Qualche volta lì davanti, per terra, c’è una lattina di birra. Qualche volta la pianta ha una foglia un po’ secca. È una Kentia, come ha scoperto andando a cercare in internet. Non vuole fare sapere a lei che sta tenendo d’occhio la pianta, e che la pianta sta bene. Non ancora. Non vuole dirglielo, non ancora. Sta studiando. Si stupisce di se stesso, di tutte le cose che non conosceva, ma soprattutto di quelle che ancora non capisce.