Lo straccio della sera è appeso in un cielo sporco, ha strofinato via la vita di troppi insetti umani. Una curva nasconde la salita della montagna, il suo dorso scontroso. Cadono mura a perpendicolo sul tramonto, s’alza un’ala d’uccello nera, segno delle scritture smarrite, senza più lettori. Le dita grattano l’aria e la pelle, tutto in attesa di una quiete che non scende. Anche la notte sarà piena di un andirivieni isterico, le gambe di migliaia di solitari che s’inerpicano sulle salite e si fermano solo quando si esaurisce il fiato.
Apre la porta di casa, entra, lascia cadere la borsa. Il silenzio gli infila una mano sotto la camicia e gli sfiora la schiena. I muscoli si tendono, i nervi trasmettono elettricità per qualche istante. Poi la schiena torna curva. Aveva immaginato qualcosa di così verosimile da eccitare le terminazioni nervose. Adesso nella curva della sua schiena declina definitivamente la sera. Va a sedersi, appoggia i gomiti sul tavolo. Dopotutto respira. Non può farla tanto lunga. Non accade a lui niente di quello che non accada anche agli altri. Il sonno pastoso e nero, così come la luce del giorno. Intanto occorre alzarsi da lì e preparasi la cena. E non svegliare gli altri che dormono già. Mentre rimane, il fiato gli si esaurisce, la salita è verticale, la notte è appena calata. Ho un lavoro, dice in un sussurro, e la propria voce strozzata gli pare il bisbiglio allarmante dello sconosciuto che lo segue. Ho quanto serve. Posso smettere di dannarmi. Devo smettere di dannarmi. Ma non riesce ad alzarsi, forse non ci prova. Il peso del corpo sulla sedia, con addosso quintali di notte. Finché non sente uno scricchiolio, come se la gran massa sopra di lui stesse per cedere. Si volta. Vede la piccola, gli occhi appiccicati, la testa appoggiata allo stipite, le labbra imbronciate. Abbandona la sedia, la prende in braccio, le sussurra all’orecchio.